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IN TERRA STRANIERA

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Un sottile equilibrio, come la vita di chi va altrove (foto Carlotta G.)Le informazioni ufficiali, quelle che si trovano sui libri o nelle riviste specializzate destinate alle persone espatriate, parlano di un periodo di adattamento alla nuova realtà di circa sei – dodici mesi.
Tecnicamente lo chiamano “cultural shock”: trovarsi improvvisamente a vivere stabilmente in un luogo estraneo, più o meno lontano da quello che si è abituati a chiamare “casa”, condito da ritmi, abitudini, convenzioni, lingue diversi da quelle a cui si è avvezzi da un vita può provocare disagi più o meno grandi ai novelli “expats” (termine radical chic oggi usato per definire quello che, fino a non molto tempo fa, veniva semplicemente definito “emigrato“).
Mi piace pensare che, forse, se avessero evitato di utilizzare il termine “shock” i diretti interessati sarebbero stati meno terrorizzati all’idea e che, di conseguenza, anche l’ambientamento potrebbe esserne favorito.
È chiaro che un conto è trasferirsi, che so, in Giappone, un altro in Spagna o in uno Stato della vecchia Europa a portata di autostrada rispetto a “casa”.
È altrettanto ovvio che, poi, la percezione della nuova realtà e delle difficoltà che vi sono inevitabilmente collegate sia estremamente soggettiva: c’è chi non fa un plissé rispetto al fatto di essere finito in Siberia e chi non si dà pace per il trasferimento Roma – Milano 😉 Io scherzo, ma, in realtà, mi dicono che anche gli spostamenti all’interno dello stesso Paese frequentemente non sono affatto esenti da problematiche.
Nel periodo di cui sono tornata in Italia per le vacanze ho avuto occasione di parlare con un po’ di persone, amici, conoscenti e non, coi quali, quasi inevitabilmente, mi toccava il confronto sul tema dell’espatrio svizzero. Dovendo un po’ generalizzare potrei dividere i commenti grosso modo nelle due macro-categorie del “beati voi” e del “ma chi ve l’ha fatto fare”.
Confesso che la cosa che mi ha sorpreso di più, in una realtà normalmente esterofila come quella italiana, è che la categoria più nutrita apparteneva più o meno dichiaratamente al secondo gruppo:
Ma come fai a vivere lontano da tutti?” (lontano da tutti vivevo anche prima)
In un posto dove parlano una lingua terrificante?” (vero, purtroppo)
Dove c’e un clima di m….., si gela e piove tutti i giorni?” (p.s. per inciso non piove da dieci giorni e c’è un clima per il quale farei una firma a vita. Ovviamente non durerà)
Ma cosa mangiate là? (patate e crauti, no?!)
E se hai bisogno di qualcosa come fai?” (come facevo anche prima, per lo più: arrangiandomi)
Lo so, io sono un’italiana atipica, una che adora la pasta, ma dovendo scegliere una cucina esotica voterebbe Messico & China forever.
Sono quella che crede tantissimo nel genio del Bel Paese, ma ha sempre mal sopportato una certa cialtroneria del tiriamo a campare.
Sono quella un po’ asociale di suo che, se capita, non parla con nessuno fuori dalla porta di casa anche per giorni e che non sente di questo nessuna particolare mancanza.
Sono l’italiana anomala a cui non frega niente del caffè espresso (anche se qui te lo offrono tutti), ma piuttosto sceglie una bella tazza di té nero.
Sono quella che ama la puntualità e il rigore, anche se negli anni (e col figlio) da questo punto di vista sono assai peggiorata.
Sono quella che ama i paesaggi mozzafiato, gli spazi infiniti, le spiagge senza sdraio e ombrelloni ogni dieci centimetri. Il cielo blu, il vento teso del mare e i tramonti infuocati con le rondini che volano sopra la testa.
Ma, soprattutto, sono quella che crede che, alla fine,”casa sono io” e “terra è ciò che ti sostiene“. Il resto è solo illusione.


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